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Il mio ultra al Trail dei Cervi Is Xrebus 2019



Il mio ultra al Trail dei Cervi Is Xrebus 2019


17 febbraio 2019, sul calendario una scritta: “Trail dei Cervi Is Xrebus km 48 D+ 2450 m”.
Dopo aver visto l’incremento dei chilometri di questa gara che da km 43 è passata a km 48 con annesso innalzamento del dislivello positivo e conoscendo la firma dell’ASD Artzia non potevo che andare incontro a questo trail con la consapevolezza che il traguardo da raggiungere avrebbe messo a dura prova me e tutti gli altri partecipanti, non solo per l’ultra ma anche per le altre distanze.
Sveglia, colazione, prima innestata e via verso il campo gara. Aria fresca per un anticipo di primavera con un sole splendente. Tanti visi sorridenti (in realtà ve la state facendo sotto come me, dite la verità!) prima dello start. Passerella al bar per caffè – con abbraccio affettuoso a Veruschka e Davide P. che giocheranno sui sentieri della km 27 – ed una lunga fila per il pit stop alla toilette.

Rido con alcuni amici ricordando il mio errore pubblicitario (nell’anteprima del Calendario 2019 di Trail Running della Sardegna da me curato) in cui ho indicato un’altra data del trail, collocandolo il 14 febbraio.
Dubito che alcuni avrebbero corso nel giorno di San Valentino il Trail dei Cervi. La corsa dei cornuti! 
Grottesco e pericoloso.

Prima di partire decido di togliere le maniche all’antivento in modo da non aver troppo caldo nelle fasi iniziali e, contemporaneamente, tutelarmi dal fresco delle zone ombreggiate e del sottobosco nelle prime parti della corsa.

Scelta azzeccata.
Scarpe ben allacciate: saluto Massimiliano, Davide, Melania, Ines, Andrea (che oggi farà la scopa) e tanti altri amici della km 48 e via, ognuno con il suo ritmo.
Falso (come Giuda) piano nel primo chilometro e ad accoglierci il primo single track in salita.

Non ho ancora rotto il fiato e rischio di andare fuori giri: si gioca in difesa. Appena possibile allungo il passo e supero qualche trailer senza eccessivo dispendio di energie. Non è qui ed ora che si farà la gara. La battaglia personale è lunga e richiede strategia e nervi saldi.
Corro, scatto foto e giro qualche video. Si sale e si scende su terreno morbido e poi su parti più dure e tecniche. Questi sentieri presentano poche pietre, ma profondi solchi su un fondo ammorbidito dall’umidità ed altre volte invece reso sdrucciolevole dall’azione diretta del sole. L’infido brecciolino non fa sconti e la scivolata mi ricorda che procedere con borraccia in mano nel tentativo di riporla al proprio posto non è affatto saggio. Botta al gomito ricevuta e messa a tacere con una ripartenza immediata. Predico bene e razzolo male.

Per arrivare al decimo chilometro è necessario salire di quota e sappiamo che questo è il primo assaggio del profilo altimetrico della km 48. Solo più avanti rimpiangeremo questa salita.
La mia tendinite al piede sinistro pare essersi presa una pausa di riflessione. Mi sta facendo sgradita compagnia dalla penultima settimana di gennaio e questo è il secondo ultra che le rifilo.
Mi complimento con me stesso perché sto cercando di essere metodico nell’alimentarmi ed idratarmi in gara. “Ricorda di bere e di mangiare ogni tot di tempo”, una sorta di angelo custode sussurra al mio orecchio e quando provo ad ignorarlo si sgola sino a trapanarmi i timpani. Alcune volte la voce è Katia (purtroppo assente), altre di Marco (che però è in gara sulla km 27).
Entriamo in quello che io considero il vivo del percorso perché ormai ci siamo addentrati nel sottobosco del Parco dei Sette Fratelli (Sinnai, Maracalagonis – CA), che prende il nome dalle sette vette che caratterizzano questi monti. I passaggi sono diventati più tecnici e la corsa necessita pertanto di maggiore attenzione.
Tante pietre incastonate nel suolo e ad altre in piena libertà sui sentieri che ospitano le nostre scarpe.

Occhi vigili e massima reattività nel richiamare le gambe e nella scelta dei passi che costruiscono il nostro avanzare. Transito in diversi sentieri che conosco e in altri che invece scopro per la prima volta.

Seguendo le fettucce vedo una bocca di pietra desiderosa di fagocitarci: passaggio obbligato e molto affascinante. Qui la mia corsa cambia: una piccola disattenzione mi punisce con una storta al piede con la tendinite che, richiamata all’ordine da questo episodio, esclama a gran voce “Sono tornata!”. Rispolvero per l’occasione il
sanscrito per maledire me stesso, stringo i denti e riprendo a correre con questa noia tendinea.

Le discese e il terreno tecnico amplificano il dolore, il quale mi impedisce di esercitare la forza necessaria per contrastare a dovere le torsioni che il piede deve compiere sul tecnico o quando va fuori asse. Fa parte del gioco e non ho assolutamente voglia di accomodarmi in panchina.

Condivido i sentieri con Davide, Matteo, Gabriele, Melania, Efisio e tanti altri.
La sofferenza fa parte di questo sport e ognuno di noi corre con dolori di vario genere. Chi ha i crampi muscolari, disordini intestinali, chi dolori articolari, chi tendinei… Detta così sembriamo dei rottami. Forse: però rottami marcianti!
Le pietre sui sentieri non mancano di certo. Sembra di correre sul greto di un fiume. Però quant’è lungo questo fiume in secca!
L’incontro dei volontari ai punti ristoro riaccende gli animi: cordialità ed ospitalità in ogni postazione. Anche qui decido di nutrirmi per evitare di essere redarguito pesantemente dalla vocina che mi richiama all’ordine. Fette di pane con olio e sale, oppure con marmellata, wafer e acqua sono le mie scelte. Evito gli
agrumi, il cioccolato e altre bevande per precauzione.

Nonostante lo sconfinato territorio del Parco dei Sette Fratelli (58,846 ettari) durante la mia corsa incontro alcuni escursionisti – volti noti che mi salutano – che fanno trekking con cui scambio quattro rapide chiacchiere. È bello incontrare
persone che non credevi che oggi avrebbero calpestato quei sentieri.
Con dedizione alla mia causa, portare la pellaccia a casa, archivio il dislivello che mette il sigillo sulla metà del tracciato e inizio a interrogarmi sul famoso e temutissimo muro che ci attende intorno al 34esimo chilometro. Sappiamo che quel tratto sarà il più ripido e difficile da superare. Meglio non pensarci prima di
averlo davanti ai nostri occhi.
Ora si scende e pure tanto: magari fosse per me una liberazione. Proprio in questi casi e in particolar modo sul tecnico soffro per via della tendinite. Prendo il pallottoliere e inizio a contare le mie imprecazioni per ingannare tempo e dolore. Fortunatamente questi tratti mi vedono in ottima compagnia. Alterno momenti
positivi ad altri negativi come d’altronde accade ai miei compagni d’avventura.
Alcuni ricordano un video e altri fotografie del muro naturale del 34esimo chilometro e cercano di spoilerare senza però conoscere realmente ciò di cui stanno parlando. Conosciamo la trama, ma non il suo sviluppo.

Attraversiamo un sottopassaggio e cambiamo area entrando nella zona di Burranca.
Stiamo per incontrare il mostro. Sappiamo di esser scesi sino all’altezza della strada asfaltata e che per riprendere quota dovremmo collezionare tanti passi.
Prima salita del nuovo versante, lunga non troppo tecnica ma progressiva: sarà questo il muro di cui parlano? Forse il sentiero prosegue e ci sarà ancora da faticare, ma mi sembra gestibile e non mi allarmo.
Vengo destato da questa illusione dal cartello che smista nuovamente il percorso della km 27 e della km 48: la prima svolta a sinistra, la seconda a destra. “Non guardare, non guardare!” e io guardo e forse gli occhi mi escono dalle orbite.

Non ci posso credere: questa non è una salita ma una vera e propria scalata, persino di una certa lunghezza. Invoco Walter Bonatti che da lassù – più in alto del punto che toccheremo noi dopo lunga e faticosa ascesa – mi guarda con sorriso beffardo. Penso che magari lungo la scalata ci siano Reinold Messner, Simone Moro e Tamara Lunger a tendermi una mano, ma niente dobbiamo cavarcela da soli.
Qui si fa la differenza ed Efisio supera e prende la testa del gruppetto. Grande energia: complimenti.
Si procede carponi e in verticale su diversi tratti. Quando raggiungiamo la prima bandierina stupidamente crediamo di aver superato la sommità della parete ed invece si continua a faticare. In lontananza un’altra bandierina: dobbiamo salire sin lassù e ci servirà tanta pazienza. Scorgo un gregge di capre e penso che stiano ridendo per la nostra tecnica di progressione (eh sì, stiamo scalando: questa è arrampicata libera).
Faccio canonizzare nuovi santi e inizio con l’appello: nessuna risposta. Finite le invocazioni, mi fermo per pochi secondi ad ammirare il panorama e scorgo una carrareccia (finalmente un buon battuto su cui mettere i miei piedi): dobbiamo solo salire per altri metri (sempre troppi) e scendere per un sentiero non segnato dal calpestio sino a quello sterrato.

Con grande fatica terminiamo l’ascesa: nessun prete per l’estrema unzione il che significa che siamo sopravvissuti e condannati ad espiare i nostri peccati nel girone dantesco dei trailer. La discesa va gestita per dolori tendinei e per preservarmi visto che gli ultimi dieci chilometri non saranno una passeggiata. Il più è fatto, ma un trail finisce al taglio del traguardo. Scelgo bene le linee da seguire e arrivo con rinnovate speranze al falso piano su un battuto regolare (merce rara da queste parti). Se per tutelare il piede sinistro carichi maggiormente sull’altra gamba, non meravigliarti se a darti noie è il tuo solito ginocchio destro. Proseguo con Davide, ma questo nuovo dolore non ci voleva proprio. Recuperiamo ad un punto ristoro Efisio e Melania che credevamo ormai molto distanti.

Ripartiamo in sequenza, ma Efisio ha una marcia in più e in breve aumenta il distacco. Opto per una velocità più contenuta (come se già non lo fosse) e alterno la posizione con Davide per alcuni chilometri. Ad un certo punto riagganciamo Melania e Davide allunga il passo mentre io rallento e seguo la mia amica trailer.
Decido di arrivare insieme a lei sino al traguardo. La invito a correre un po’ di più perché vedo che ha ancora energie da spendere e il sorriso stampato sul volto. Arriviamo su un single track tecnico in discesa (strano, non ne avevamo ancora incontrati) che conosco, la sorpasso e procediamo con cautela per via del vigliacco brecciolino che lo ricopre. Ultimo passaggio che richiede attenzione ed esperienza in questa sorta di canyon in miniatura: un single che va saputo interpretare bene per non lasciarci le caviglie e via dritti verso il canneto. Allungo di qualche metro per dare relax alla muscolatura delle gambe, ma voglio arrivare insieme a lei. Passiamo il ponticello in legno, prendo il telefonino, lascio che Melania sfili e “ciak, si gira”.

Un cortometraggio, per un ultra trail, che racconta l’immensa gioia al taglio del traguardo della superlativa Melania che va a prendere un meritatissimo secondo posto nella categoria femminile.

Arrivo festoso, abbracci e foto. Il mio amico trailer Massimiliano mi ha aspettato al traguardo per un rapido saluto. Ci saranno altre occasioni per correre e chiacchierare insieme.
Il dopo gara profuma di cucina tipica sarda: antipasti di terra, malloreddus alla campidanese e maialetto arrosto, accompagnato da birra o vino.
In più occasioni ho pensato (anche nei giorni che hanno preceduto la gara) che viste le condizioni del mio piede avrei dovuto scegliere la km 27 e non la km 48. Fiero e contento di averla corsa e di aver riportato al traguardo e a casa la mia pellaccia. Una volta rincasato, ceno con mia moglie perché dopo la corsa bisogna
continuare a reintegrare le energie perse lungo il faticoso itinerario su cui abbiamo viaggiato in questa domenica di febbraio.
Percorso ben disegnato e tracciato, con un elevato gradiente tecnico di difficoltà che ormai contraddistingue i trail progettati dall’ASD Artzia. I Sette Fratelli offrono un paradiso terrestre per chi ama la natura e qui noi trailer abbiamo dato l’anima per giungere sino alla fine di questo bellissimo viaggio.
Da Runner Escursionista e dal Parco dei Sette Fratelli per ora è tutto.

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